La prima cosa che colpisce in questo documento è la determinazione con cui si sostiene che la santità appartiene alla gente comune, che ha un’ordinaria vita quotidiana fatta delle cose semplici che sono la struttura dell’esistenza di tutti. Dunque una santità che non è per pochi eroi o per persone eccezionali, ma che rappresenta il modo ordinario di vivere l’ordinaria esistenza cristiana. La conseguenza di questo è subito detta: se non vi è vocazione o condizione esistenziale incompatibile con la chiamata alla santità, allora non vi è vita cristiana possibile al di fuori di questo quadro esigente e appassionante: la vita cristiana non può realizzarsi pienamente se non nella prospettiva della santità, non vi sono percorsi intermedi o accomodamenti con lo sconto.
La regola di essa è presentata nel terzo e quarto capitolo del documento. La carta di identità del cristiano è data dalle beatitudini e da quella che Papa Francesco chiama la «grande regola di comportamento» proposta nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo: la concreta misericordia verso il povero.
Nelle beatitudini vi è la carta di identità del cristiano perché in esse si delinea il volto del Maestro, che il cristiano è chiamato a far trasparire nella quotidianità della sua vita (n. 63). La parola “felice”, o beato, è sinonimo di santo. Chi vive nel dono di sé perché vive secondo la parola di Gesù, è santo e raggiunge la vera beatitudine.
Papa Francesco però mette in guardia dalla tentazione di considerare le beatitudini come belle parole poetiche: esse vanno controcorrente e delineano uno stile diverso da quello del mondo. Basta leggerne la semplice declinazione che viene fatta al termine della descrizione di ciascuna di esse: il santo è colui che è povero nel cuore; il santo è chi reagisce con umile mitezza; santo è chi sa piangere con gli altri; santo è chi cerca la giustizia con fame e sete; santo è chi guarda e agisce con misericordia; santo è chi mantiene il cuore pulito da tutto ciò che sporca l’amore; santo è chi semina pace attorno a sé; santo è chi accetta ogni giorno la via del Vangelo nonostante questo gli procuri problemi.
La «grande regola di comportamento» traduce in modo concreto le beatitudini, soprattutto quella della misericordia. L’esempio che viene riportato al n. 98 è proprio molto concreto e mostra il discrimine tra l’essere cristiani e non esserlo. «Quando incontro una persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda» (n. 98) posso considerarlo un imprevisto fastidioso o riconoscere in lui un essere umano con la mia stessa dignità, come me infinitamente amato dal Padre: dal mio atteggiamento passa il confine tra l’essere cristiano e no.
Le beatitudini delineano il volto del Signore Gesù e non possono essere vissute se non conservando un’intensa unione con Lui. Ma non è sulla via della santità nemmeno colui che diffida dell’impegno sociale «considerandolo qualcosa di superficiale, mondano, secolarizzato, immanentista, comunista, populista» (n. 101); e conclude il testo: «Non possiamo proporci un ideale di santità che ignori l’ingiustizia di questo mondo». Perché se la santità è vivere l’amore, il dono di sé come lo ha vissuto il Signore Gesù, fino in fondo, in maniera radicale e totale, non si potrà passare distratti e indifferenti accanto al fratello; e per fare questo, il cristiano avrà bisogno che sia il Signore Gesù a renderlo capace di amare come Lui ha amato.
Vivere la santità richiede di aver realizzato nella propria vita quella unità per cui si passa dalla contemplazione del volto del Signore al concreto gesto di carità, e dal gesto al volto.
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Il capitolo quarto delinea cinque grandi manifestazioni dell’amore per Dio e per il prossimo; cinque forme attuali, perché la santità ha forme concrete diverse nei diversi tempi. Il documento è uno strumento per cercare le forme della santità per l’oggi. Le cinque caratteristiche proposte intendono misurarsi con alcuni rischi e limiti della cultura di oggi: «l’ansietà nervosa e violenta che ci disperde e debilita; la negatività e la tristezza; l’accidia comoda, consumista ed egoista; l’individualismo, e tante forme di falsa spiritualità senza incontro con Dio che dominano nel mercato religioso attuale» (n. 111).
Per questo, c’è bisogno di fermezza e solidità interiore per resistere all’aggressività che è dentro di noi, alla tentazione di partecipare a quelle forme moderne di violenza quali quelle costituite dalla rete, per non lasciarsi suggestionare dal male che si annida sottile nelle relazioni con gli altri e le avvelena…
Il santo vive con gioia e ha il senso dell’umorismo; la sua non è la gioia spensierata e superficiale, ma quella che nasce dalla consapevolezza di essere infinitamente amati e si esprime nella comunione fraterna.
Inoltre la santità è parresia, è coraggio apostolico, è capacità di osare, di sperimentare, di prendere l’iniziativa, di muoversi verso la novità. È osare di andare verso le periferie e le frontiere, per scoprire che il Signore è già lì «Gesù ci precede nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita oppressa, nella sua anima ottenebrata. Lui è già lì» (135). Santità è sfidare l’abitudinarietà e lasciarsi smuovere da ciò che succede attorno a noi e dalla Parola del Risorto.
Santità è un cammino da fare in comunità, come testimoniano tanti santi, e tra essi i monaci trappisti di Tibhirine, che si sono preparati insieme al martirio. La vita comunitaria — in famiglia, in parrocchia, nella comunità religiosa… — è «fatta di tanti piccoli dettagli quotidiani» (n. 143). La via dell’unità desiderata da Gesù nel discorso di addio passa dai piccoli gesti di ogni giorno.
Infine la santità è preghiera, fatta di silenzio, del lasciarsi guardare dal Signore, dal lasciar alimentare da Lui il calore dell’amore e della tenerezza; è «la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità». La santità è lasciarsi trasformare dal Signore e dalla potenza del suo Spirito.
Anche oggi, dunque, la via della santità è la via della gioia.